Daniela Magrì
Psicologa – Psicoterapeuta
Questo mese parliamo del sistema della cura, ossia di quello su cui basa tutto il complesso delle attenzioni dei genitori verso i figli, ma anche della affettività tra pari e delle relazioni tra adulti, che spesso ricalcano proprio lo stile di relazione imparato da piccoli nel rapporto con mamma e papà.
Considerate che l’ossitocina è l’ormone che permette il parto ed è implicato, insieme alla prolattina, anche nell’allattamento, per cui sono due ormoni profondamente implicati nella creazione del rapporto tra madre e bambino.
Il sistema della cura è quindi strettamente legato ai concetti di attaccamento ed accudimento, che ne sono i due lati.
Attaccamento ed accudimento sono infatti le motivazioni che spingono due particolari soggetti interagenti ad agire attivamente per mantenere vivo un rapporto che si basa, tra l’altro, su ricerca di protezione da un lato e cura dall’altro: uno agisce “lato bambino” e l’altro “lato genitore”.
Il bambino di pochi mesi, che ha bisogno dell’adulto per sopravvivere (che vuol dire per muoversi, mangiare, bere, stare al caldo e all’asciutto) entra nel panico e protesta piangendo quando il genitore, la mamma in particolare, si allontana: lo fa perché, sebbene probabilmente non in modo cosciente, ha paura. L’evoluzione ha fatto in modo che, del lato del genitore ma in generale per qualsiasi persona adulta, il pianto del bambino piccolo sia diventato un potente motore perché l’adulto si riavvicini al piccolo e si attivi per rassicurarlo e tranquillizzarlo. Anche quando il bambino diventa più autonomo, ed anche quando si trasforma in adolescente ed adulto, avrà sempre bisogno di una figura di attaccamento. Da adulti, per riconoscerla, è sufficiente rispondere, senza riflettere troppo, alla domanda: “Chi vorresti si prendesse cura di te nel caso venissi ricoverato in ospedale?”
Quando un bambino, che sa di potersi fidare del suo adulto di riferimento, solitamente la madre, è in relazione con questo e quest’ultimo è in grado di accudirlo e prova piacere nel farlo si crea la tenerezza.
Emozione lieve, senza forti correlati fisici (il cuore non ci batte forte come nella paura, nella rabbia o nell’entusiasmo), la tenerezza è talvolta considerata secondaria nella vita delle persone.
La tenerezza nasce dalla percezione dell’altro come potenzialmente vulnerabile, percezione che in effetti restituisce all’altro un riconoscimento, perché è vero che siamo tutti potenzialmente vulnerabili. In questo senso la tenerezza ci aiuta a vedere davvero chi sia l’altro, degno di attenzione ed amore anche con le sue fragilità.
Accettare che qualcuno possa provare della tenerezza verso di noi significa quindi accettare che possa percepire anche le nostre parti più piccole, più indifese, e decidere che è possibile fidarsi a sufficienza da potergliele mostrare. è infatti questo che fa il bambino piccolo all’adulto, senza averne scelta, e può continuare a farlo, questa volta scegliendolo, se dall’altra parte trova una reale accoglienza proprio per la sua fragilità. In questo caso porterà nella sua memoria corporea (come mi sento), oltre che episodica (quella volta che è successo che la mamma mi ha coccolato), la sensazione piacevole delle carezze, che sono il comportamento con cui più frequentemente questa emozione si esprime. Questo permette che quelle memorie diventino semantiche cioè generalizzate, assomigliando a una convinzione del tipo “Io sono una persona degna di amore”.
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