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Custodire per… nascere e far nascere

6 Settembre 2022 in Donna & Catechesi 0

A cura di sr. Stefania Baneschi

Francescane Missionarie di Gesù Bambino


Nella Scrittura, “il custode” è appellativo di Dio. Egli ci custodisce come la pupilla dei suoi occhi (Sal 17,8), è colui che veglia per proteggere la vita dei figli (Sal 120, Sal 127). Gesù stesso si identifica con il Pastore bello e buono che conduce ai pascoli di una vita buona e abbondante (Gv 10,10). “Custodire” è inoltre il verbo che fin dall’inizio ci insegna il Creatore, è la prima missione che Egli affida all’uomo (Gn 1,3). Appena creato, l’uomo è posto da Dio a custodia del giardino del paradiso e invitato a essere un coltivatore attento, che lavora tenacemente perché la terra porti frutto. Ciò significa che ciò che è uscito dalle mani di Dio ha bisogno di responsabilità, di attenzione, di cura. Papa Francesco lo ripete spesso: l’ambiente, la nostra e altrui esistenza sono realtà da custodire, sono doni affidati alle mani dell’uomo perché ne venga difesa la bellezza.  

La vita nasce sempre con un iniziale bisogno di custodia, di cura. Pensiamo ai bambini piccoli: senza qualcuno che li accudisse sarebbero destinati a morte certa. Così anche la vocazione: essa ha bisogno di trovare in ogni uomo la disponibilità a custodire il campo del proprio cuore, delle proprie relazioni, del proprio corpo, nella consapevolezza che tutto – ma proprio tutto – è il luogo dove parla il Signore, dove germoglia la vita nuova con Dio.

Non è difficile pensare che l’atteggiamento della custodia sia una caratteristica peculiare della donna. Essa non solo è il grembo della vita ma è sempre, fin dalle origini, colei che assicura la vita, che la difende, che è sempre dalla sua parte, che la allontana da ogni minaccia di morte. Ne troviamo due di donne, nel libro dell’Esodo, che si schierano con coraggio dalla parte della vita e rischiando di persona: sono Sifra e Pua, levatrici d’Egitto. Il popolo d’Israele è sotto la schiavitù degli egiziani. Il loro numero cresce e incute timore al faraone che cerca di porvi rimedio decretando l’uccisione dei figli maschi degli Ebrei, affidando questo compito alle levatrici. Due di loro si oppongono, rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere. Rischiano la vita per affermare il diritto di altre donne straniere, lontane, sconosciute, alla vita e alla maternità. «Le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1,17). Il faraone segue la legge del potere e dell’oppressione, le levatrici quelle della vita e del futuro. Senza il loro intervento, Mosè non si sarebbe salvato. Quello di queste due donne è un gesto essenziale, eppure sono figure che rimangono nell’ombra, nascoste, di cui la storia si ricorda appena. Non sappiamo se conoscessero il Dio di Israele ma vanno al centro di ciò che conta, di ciò che rimane, di ciò che supera i meccanismi umani di sopraffazione e controllo: amano la vita, ne difendono la dignità, il valore supremo, intoccabile. 

Le levatrici di Israele ci mostrano che ogni vero cammino che segua la strada della fede, del “timore di Dio” deve partire non da ideali astratti, lontani, ma dal senso profondo del valore della vita di ciascuno, al di là di provenienze o appartenenze. Sifra e Pua ci spingono a riflettere su quanto i nostri gesti, le nostre scelte, siano rivolti a far nascere, a promuovere, a far crescere e sostenere il cammino dell’altro disobbedendo a quel contagio di morte che è la logica del confronto, la tirannia dell’efficienza e della prestazione. 


Continua a leggere l’articolo sul numero 20 di Essere Catechisti

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